Il 20 febbraio diverse donne migranti e italiane si sono incontrate a Bologna per ragionare insieme sul conquistare una visibilità verso lo sciopero e le manifestazioni del prossimo primo marzo, ma non solo.
Già l’anno scorso molte donne hanno scioperato e sono scese in piazza, accettando la sfida di mostrare che cosa succede se i migranti e le migranti che vivono in Italia decidono di incrociare le braccia per un giorno, e con loro tutti gli italiani e le italiane stanchi di vedere attaccati il loro lavoro e i loro diritti, stanchi del razzismo istituzionale.
Già l’anno scorso c’erano molte donne ma non quante avrebbero potuto, e soprattutto non quante avrebbero voluto esserci. Perché scioperare, determinare la propria presenza, far sentire la propria voce è per le donne, migranti e italiane, una doppia sfida.
L’assenza delle donne è determinata dal doppio incarico al quale sono costrette: il lavoro di cura e domestico (pagato o non pagato) e lo sfruttamento nei posti di lavoro che colpisce soprattutto le donne migranti.
Questa situazione, determinata da un sistema patriarcale (che non ha né cultura né nazione, né religione, ma che è universale) passa attraverso l’attacco quotidiano alle operaie della casa, alle mogli, alle lavoratrici isolate, e si articola in svariate maniere.
In Italia, la legge Bossi-Fini è lo strumento utilizzato per riaffermare, in forme sempre nuove e violente, il linguaggio del patriarcato. Una legge che colpisce due volte le donne migranti tramite il contratto di soggiorno per lavoro che le rende lavoratrici ricattabili (sia nelle fabbriche sia nelle case), sempre a rischio di diventare “clandestine”, di essere rinchiuse nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) ed espulse.
E ancora: la legge Bossi Fini rafforza il patriarcato che è nelle case perché le donne migranti che sono in Italia per ricongiungimento famigliare dipendono dal permesso di soggiorno del marito e per loro è difficile o impossibile – anche in assenza di supporti concreti – liberarsi dalla subordinazione o dalla violenza domestica che, come capita anche a moltissime donne italiane, spesso esercitano i mariti.
Inoltre la legge Bossi-Fini riproduce su scala transnazionale la divisione sessuale del lavoro riproduttivo. Il lavoro domestico e di cura è sempre destinato alle donne, migranti o italiane che siano, anche se una parte delle donne è riuscita a liberarsi almeno parzialmente da questo «destino domestico» pagando un’altra donna. Finché le donne migranti saranno riconosciute solo come «ruoli» (mogli, prostitute che possono riscattarsi solo come vittime, badanti e colf sulle quali si amministra il nuovo welfare privato, pagato dalle donne) la libertà di tutte le donne è sotto attacco.
Per questo è necessario oggi conquistare la parola e la visibilità politica delle donne, soprattutto di quelle migranti. Perché le migrazioni delle donne mettono in discussione le strutture sociali e patriarcali sia nei paesi di partenza sia in quelli di arrivo. Da questa potenza, oltre le reali difficoltà, dobbiamo muovere insieme il passo verso una presenza politica. Una presenza che ci faccia prendere e riprendere la parola!
A Bologna è stato chiaro che noi donne, migranti e italiane, non siamo più disposte ad accettare che il nostro sfruttamento e la nostra subordinazione siano giustificati da stati, culture, tradizioni o religioni. Non siamo più disposte ad accettare un antirazzismo neutro o il linguaggio politicamente corretto di un multiculturalismo che giustifica le aggressioni contro le donne che accadono all’interno delle comunità e delle famiglie. Criticare questa realtà non vuol dire fare una crociata razzista colpendo indiscriminatamente tutta le comunità migranti ma vuol dire criticare le pratiche patriarcali esercitate da uomini sia immigrati sia italiani. Vuol dire riaffermare una battaglia per la libertà delle donne, migranti e italiane.
Per questo chiamiamo il nostro sfruttamento e la nostra subordinazione (quelli imposti dalla legge Bossi-Fini e quelli raccontati come “tradizione”) con il loro vero nome: patriarcato.
Proponiamo alle donne, dentro e fuori il movimento dei migranti e antirazzista, a tutte coloro che stanno scendendo nelle piazze per affermare la propria libertà di donne contro un potere che si esercita prima di tutto sui loro corpi, di costruire una propria visibilità accanto alle donne migranti, prima di tutto nelle piazze del primo marzo.
Ma proponiamo di avviare un percorso di assemblee, a livello locale e nazionale, per far valere anche oltre il primo marzo la voce e la presenza delle donne, con le donne migranti. Perché la loro assenza dalle piazze è un silenzio assordante. Perché la visibilità che le donne si riprendono sarà accecante.
Le Donne del Coordinamento Migranti Bologna e Provincia.
Associazione Todo Cambia, Milano.
Associazione Trama di Terre, Imola.
Insieme per la Pace (Milano).
Rete Intrecci: Associazione Donne in Cammino per la Famiglia, Forlì-Cesena; Associazione. Il Ventaglio, Bologna; Associazione ANNASSIM, Bologna; Associazione Che la Festa continui, Casalecchio (Bo); Associazione Donne del Mondo, Forlì-Cesena; Associazione UDI, Modena; Ass. Differenza Maternità, Modena, Ass. Donne in nero; Ass Vagabonde, Parma.
Aderiscono:
Associazione “Orlando”, Bologna
Gruppo Sconfinate di Romano di Lombardia (BG)
Agnese Micheletti Brescia – donna accanto ai migranti sotto e sopra la gru.
Marcia mondiale delle donne contro le violenze e la povertà
Libere tutte - Firenze
Gianna Baresi – Brescia
Natascia Morigi
Per adesioni: migranda2011@gmail.com
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