Stasera proiezione del docu-fiction "NAPOLO NAPOLI NAPOLI" di Abel Ferrara, alla consulta dei giovani di Quarto ore 22,00 piazzale Europa, Quarto. Di fronte bar Reder, alle spalle della sede del comune di via Enrico De Nicola.
Du parole su Napoli, Napoli,Napoli
Intervista a Gaetano Di Vaio: "Il riscatto di Napoli attraverso un film"
Napoli - “Napoli, Napoli, Napoli”, il film girato nel capoluogo campano dal regista statunitense Abel Ferrara, poggia su due elementi fondamentali: una maestria conclamata nell’utilizzo del linguaggio cinematografico, e la collaborazione attiva, costante, preziosa, di chi questa città la conosce davvero. Ne conosce i vicoli, la gente, i vizi e gli umori, ha vissuto la Napoli peggiore (quella che ai cineasti piace di più) ed è rimasto incastrato per anni nelle crepe profonde che un governo spesso distratto ha lasciato che si formassero in una società sostanzialmente abbandonata.
Gaetano Di Vaio è il responsabile dell’associazione Figli del Bronx, nata nel 2003 da un progetto teatrale dello scrittore Peppe Lanzetta: cresciuta con l’intento di fornire un’alternativa alle persone che, per ragioni di appartenenza sociale, non intravedono dinanzi a sé un futuro particolarmente roseo, l’associazione ha partorito una società di produzione cinematografica con l’intanto specifico di lavorare al film di Ferrara. Nel corso degli anni, Figli del Bronx ha lavorato con artisti del calibro di Mario Martone, Toni Servillo, Francesco Rosi, Daniele Sepe, Luigi Lo Cascio, Nino D’Angelo.
Di Vaio, il film “Napoli, Napoli, Napoli” sarà presto disponibile al pubblico. Ce ne parli.
“Si tratta di una ‘docu-fiction’ nata con l’esigenza di raccontare l’umanità che in qualche modo ha a che fare con la strada, con le carceri, da un punto di vista interno alla realtà immortalata. Nel corso degli anni, abbiamo avuto a che fare con molte iniziative esterne alla nostra realtà, che venivano a Napoli per raccontare una storia, per girare un film, e poi andavano via. Ciò che caratterizza questo film, è il fatto che la storia è raccontata in prima persona. Io, poi, da ‘ex delinquente’ ed operatore sociale, ho fornito ad Abel tutto l’aiuto necessario”.
Com’è nato il progetto con Ferrara?
“Portare Abel Ferrara a Napoli non era semplice, soldi non ce n’erano, ma c’era la voglia di raccontare, la volontà e l’energia per farlo, il fascino di determinate esperienze vissute. Con Abel ci incontravamo a Roma, lo aiutavo in alcune sue piccole produzioni, la sera lo accompagnavo in albergo. Si parlava spesso di Napoli, ed io avvertivo la sua forte ricerca verso la propria identità. La famiglia di Abel è originaria di Sarno, e immagino che lui abbia rivisto le città campane anche attraverso me. a Sono stato una specie di tramite fra lui e le sue origini, fra la sua vita negli Stati Uniti e la visceralità napoletana. Forse è anche per questo che alla fine, si è convinto di voler fare un film che parlasse di Napoli”.
Partendo da dove?
“Beh, io ho trascorso diversi anni della mia vita nelle carceri, ed è proprio da lì che siamo partiti, dalle carceri. Forse è una partenza anomala, ma certamente un’idea interessante. Chi era, Voltaire a dire che la civiltà di un paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri? Ecco, da questo punto di vista Napoli è una città particolare. Per dirne una: abbiamo dovuto filmare l’ospedale giudiziario di Aversa, per rappresentare la location del carcere di Poggioreale. Da quest’ultima struttura, infatti, non ci è stata concessa l’autorizzazione a filmare. La realtà del carcere di Poggioreale non si vuole affrontare realmente, e non ho mai capito perché. Penso che la città, e gli italiani in generale, dovrebbero disporre di una vista maggiore all’interno delle carceri. La casa circondariale è un luogo chiuso, e il pericolo è che chi, all’interno della struttura, esercita il potere, lo gestisca in maniera inopportuna. Praticamente, c’è il rischio che faccia quel che vuole. Non mi riferisco certo al carcere di Poggioreale, ma basti considerare che gli abusi nelle carceri sono all’ordine del giorno, e gli stessi accessi esterni sono spesso gestiti in maniera non completamente trasparente. Nel film, sebbene questo aspetto non venga trattato, viene invece affrontato un altro argomento importante: il rapporto tra detenuti e guardie carcerarie”.
Si è più volte parlato della speculazione che molti artisti fanno sui quartieri degradati. Anche voi “spente le telecamere andate via”?
“E’ vero, questo è un atteggiamento molto diffuso, l’atteggiamento di chi non conosce questa realtà, bada solo al successo e agli interessi di mercato. Scampia così diventa un luogo dove attingere, copiare, e lasciare abbandonato. Il nostro animo invece è fortemente sociale, accompagnato da una voglia di calarsi nella realtà ritratta. Un produttore potrebbe chiedere: oltre a fare il film, cos’altro dobbiamo fare? Io dico, se si incassano milioni e milioni di euro, allora qualcosa in più la si può fare. Contribuire in qualche modo, dare un aiuto alle associazioni che operano sul territorio, aiutare la gente ad emergere dalla condizioni di disagio sociale oggetto del proprio lavoro cinematografico. Basta stringere piccoli accordi, dare piccole somme a persone fidate, che lavorano per aiutare il quartiere, scegliendo magari autonomamente a chi destinare il proprio contributo”.
Esempi di questo tipo?
“Il film Gomorra. Il mio non vuole essere un attacco diretto, ma è evidente: ha incassato somme enormi grazie al successo ottenuto, ha ritratto scene della vita di quartiere grazie a persone che, come me, hanno consentito che si lavorasse senza intrusioni esterne. In questi posti, si sa, non è facile girare un film. Ebbene, in quel caso l’azione cinematografica non ha lasciato nulla dietro di sé. E dire che, volendo dare un aiuto, c’erano diverse organizzazioni oneste e produttive a cui destinarlo. L’associazione “Chi rom e chi no”, per esempio”.
Il suo è un invito?
“Sì, è un invito esplicito ai produttori che ambientano i propri lavori nelle aree disagiate del napoletano: non pensate solo ai cavoli vostri. Mettete una pianta là dove avere attinto ispirazione, racconti, scene di vita. Questa città deve cambiare, e voi, dopo averla usata, non potete esimervi dal fare la vostra parte. Per quanto mi riguarda, ho chiesto ai produttori del film ‘Napoli, Napoli, Napoli’, nel caso in cui gli incassi siano adeguati, di regalare non necessariamente soldi, ma almeno strumenti, libri, musica, qualunque cosa possa giovare alle persone che hanno contribuito alla realizzazione del film, e in particolare al carcere femminile di Pozzuoli. Vorrei spendere due parole a favore di una persona che ci ha aiutato tanto”.
Prego.
“Luca Liguori è un imprenditore napoletano del quartiere di Chiaia che non si occupa di cinema, ma ha prodotto sia il film “Sotto la stessa Luna”, ambientato nei campi rom di Scampia, che “Napoli, Napoli, Napoli”. A vederlo, penseresti di lui che è un borghese, uno che pensa solo ai cavoli suoi. Invece ha prodotto, in silenzio, tutti e due i film. Senza farsi pubblicità, senza dirlo a nessuno”.
Stefano Piedimonte
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