Nel suo discorso di Yaroslavl Berlusconi ha riscritto (o meglio, raccontato) la nostra storia a modo suo. Secondo lui i costituenti, preoccupati di non ricadere nel fascismo, invece di dare il potere al governo e al capo del governo lo ripartirono tra le assemblee parlamentari, il capo dello Stato e la Corte costituzionale; per tale ragione il governo non ha la possibilità “immediata” (dimenticati i decreti legge) di intervento, ma “deve far passare tutta la sua attività attraverso l’approvazione delle Camere”. Le Camere sono dunque il difetto del sistema.
Nel racconto di Berlusconi c’è tuttavia una contraddizione: perché da un lato dice che “abbiamo avuto sessant’anni di vita democratica con il governo nelle mani dei partiti democratici occidentali che con alcuni difetti hanno consentito che l’Italia crescesse nel benessere in un sistema di democrazia e libertà”, dall’altro dice che niente funzionava perché c’erano stati 55 o 56 governi prima del suo che in media avevano governato per undici mesi, spazio di tempo troppo piccolo per fare alcunché. Questo difetto del sistema sarebbe stato ora rimosso dallo stesso Berlusconi con l’avvento dei suoi governi e il cambio della legge elettorale; tant’è che anche gli attuali sommovimenti nella maggioranza sono piccole questioni di professionisti della politica che vogliono farsi la loro aziendina: ma di sicuro il governo durerà per tutta la legislatura.
La storia raccontata da Berlusconi comprende naturalmente il capitolo magistratura la quale nel 1993, essendo politicizzata e di sinistra, aprì la strada del potere a un partito comunista italiano non ancora democratico; per fortuna la gente chiamò lui, che era un imprenditore di fama e con il Milan aveva vinto il maggior numero di trofei della storia del calcio, e così in tre mesi l’Italia fu salva. Resta ora il fatto che la magistratura insidia la governabilità e insiste nel voler “issare la sinistra al potere”; anche a questa oppressione giudiziaria si deve porre rimedio, stabilendo che la magistratura “non deve essere un potere ma un ordine dello Stato”.
L’annuncio dato da Berlusconi in Russia è dunque molto chiaro: l’errore fatto dalla Costituente è stato rimosso, c’è stato, con il suo governo e la legge elettorale, un cambiamento della Costituzione di fatto, grazie al quale c’è ormai un potere, il suo, sovrastante ogni altro potere.
Questo significa che con le prossime elezioni non solo Berlusconi cercherà la conferma del suo potere come sovrastante ogni altro potere, ma certamente cercherà di trasformare questo cambiamento istituzionale di fatto in un cambiamento costituzionale di diritto, tale per cui anche incidenti come quello provocato nella sua stessa maggioranza da Fini, non siano più possibili.
Ciò trasforma le prossime elezioni, prossime o lontane che siano, in un referendum costituzionale. Se Berlusconi di fatto indice un tale referendum, sarebbe assurdo che i suoi avversari lo disertassero, gli astenuti continuassero ad astenersi e i partiti pensassero solo a raccogliere voti per sé come se si trattasse di un normale turno elettorale. Come nel 1946, quando si votò con spirito costituente, sia per scegliere tra monarchia e repubblica sia per eleggere i membri del Parlamento-costituente, così ora si dovrà votare per scegliere tra una democrazia rappresentativa con divisione dei poteri, e una democrazia monocratica con un solo potere, ridotti gli altri a “funzioni” o ordini al servizio di questo. L’analogia col 1946 è chiara, e il CLN non c’entra. Nel 46 non si votò per decidere tra fascismo e democrazia, perché il fascismo era già stato sconfitto, ma si votò per due concezioni e due forme di democrazia, monarchica o repubblicana, autoritaria o garantista, piramidale o rappresentativa; così anche ora si tratta di scegliere tra una democrazia aziendale e una democrazia parlamentare, in cui però i parlamentari non si ingaggino e non si comprino.
Di conseguenza le prossime elezioni, se non potrà essere cambiata la legge elettorale (e faranno di tutto per impedirlo) dovranno essere affrontate in modo che la trappola predisposta dalla legge Calderoli non possa scattare. Perciò dovrebbe formarsi una coalizione costituzionale di cui facciano parte tutte le forze che, in una logica referendaria, si oppongono alla revoca della democrazia parlamentare e repubblicana. Essa dovrebbe, senza bisogno di usufruire del premio di maggioranza, ottenere complessivamente una maggioranza superiore al 55 per cento dei voti, sicché il sistema non sarebbe forzato a rappresentare quello che non c’è. È in questo spirito che Fini e Casini dovrebbero scegliere da che parte stare. Entro questa più larga coalizione (che potrebbe chiamarsi, semplicemente, “democrazia”) dovrebbe essere stipulata una alleanza di governo tra i partiti convergenti non solo in una scelta di sistema, ma anche su un programma per l’esecutivo; e sarebbero questi che dovrebbero indicare quello che la legge chiama “il capo della coalizione”. Si riprodurrebbe così, come nella fase nascente della nostra repubblica, una doppia e per larga parte coincidente investitura, una di tipo costituente, come quella che si realizzò nell’Assemblea costituente del 46-47, e una di tipo esecutivo, come quella che si concretò con la fiducia, accordata con diverse maggioranze, ai governi De Gasperi.
In tal modo la democrazia costituzionale verrebbe salvaguardata e rinvigorita, e potrebbe nel contempo essere ripresa una normale, efficiente e sobria attività di governo per gli interessi e i bisogni degli Italiani tutti, e il ripristino del loro ruolo nel mondo.
http://domani.arcoiris.tv
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