Andrea Fumagalli
Foto di David Fernández
Luchino Galli,
blogger e mediattivista, intervista Andrea Fumagalli, professore
associato di economia politica all’Università di Pavia.
Andrea,
tra gli economisti italiani sei uno dei maggiori esperti di reddito
minimo garantito; sei anche vicepresidente di BIN Italia. Di cosa si
occupa e perché è nata quest’associazione?
Il Bin
(Basic Income Network . Italia) è costituito da sociologi, economisti,
filosofi, giuristi, ricercatori, liberi pensatori che da anni si
occupano di studiare, progettare e promuovere interventi indirizzati a
sostenere l’introduzione di un reddito garantito in Italia. A tal fine è
stato ideato un sito come strumento per l’aggregazione delle idee
(http://www.bin-italia.org). Ne è risultato un network di competenze
diverse che muovono però nella medesima direzione, sotto un «logo
comune», quello del “BIN Italia”, perché comune è l’obiettivo: giungere
all’introduzione di un Basic Income per tutti.
Il confronto
nazionale ed internazionale sul reddito di cittadinanza (Basic income)
ha conosciuto un vibrante sviluppo ed al tempo stesso uno straordinario
arricchimento. Il ragionamento collettivo sul tema ha trovato ulteriori
connotazioni negli anni nei quali sono divenute egemoni condizioni e
modalità produttive che in genere vengono riassunte nell’espressione
“biocapitalismo cognitivo” o, più generalmente, “post-fordismo”. Il
Basic income è diventato, in questo modo, il fulcro attorno al quale
diveniva possibile ridisegnare il nuovo statuto delle garanzie non solo
del lavoro, ma della cittadinanza. Il reddito di esistenza, come è stato
spesso definito il Basic Income, pone la questione centrale su cosa
siano oggi, a fronte delle trasformazioni sociali e globali, i diritti
sociali, cosa significa garanzia di un livello socialmente decoroso di
esistenza e della possibilità di scelta e di autodeterminazione dei
soggetti sociali. Il dibattito italiano ha goduto di una forte varietà
di riferimenti e di ottiche di lettura che bene fa comprendere la sua
originalità e ricchezza. È stata centrale, in questo dibattito, proprio
l’analisi delle trasformazioni produttive degli ultimi decenni, in
particolare l’emergere della condizione precaria come condizione
generale del lavoro, la cui indagine rappresenta il contributo forse più
interessante che il dibattito italiano può offrire al contesto
internazionale.
Cosa si intende per reddito minimo
garantito? È possibile darne una definizione? Qual è la Tua idea di
reddito minimo garantito per il nostro Paese?
Il
reddito minimo garantito è un reddito di base incondizionato (RBI), dato
a livello individuale, ai residenti (e non solo ai cittadini),
incondizionato (ovvero non sottoposto a nessun obbligo), pagato dalla
fiscalità generale e non dai contributi sociali. Non è una misura
assistenziale, in quanto è reddito primario, cioè è reddito che remunera
un’attività produttiva di valore, che è l’attività di vita, che solo in
parte oggi, sulla base delle leggi vigenti, è certificata come lavoro e
quindi remunerata. Il RBI remunera quella parte di vita produttiva che
non viene considerata tale (apprendimento, formazione,
mobilità/trasporto, riproduzione, consumo). È una misura di welfare
(sicurezza sociale) che parzialmente esiste in tutti i paesi dell’Unione
europea eccetto Italia e Grecia: un sostegno economico alle persone con
un lavoro intermittente o disoccupate. Varia da poche centinaia di euro
ai 1.200 al mese della Danimarca e Lussemburgo. In Italia dovrebbe
essere come minimo di 720 euro al mese (20% in più della soglia di
povertà relativa). Oggi, ammortizzatori sociali come la cassa
integrazione o il sussidio di disoccupazione sono riservati a chi ha
perso un lavoro a tempo indeterminato e determinato; il RBI invece
dovrebbe essere dato a tutte le persone che hanno un reddito inferiore
ai 720 euro/mese, per esempio ai precari tra un contratto e l’altro, ai
disoccupati e ai lavoratori/trici che pur impiegati/e guadagno salari da
fame, inferiori ai 720 euro/mese, in modo incondizionato, ovvero
slegato sia dal tipo di contratto precedente che dall’obbligo di
accettare qualsiasi impiego proposto o i programmi di inserimento
lavorativo.
Il ministro dello Sviluppo Economico e
delle Infrastrutture e dei Trasporti Corrado Passera ha dichiarato: “Se
non si guarda solo ai disoccupati ma anche a chi non cerca più il
lavoro o chi ha un lavoro, ma un reddito insufficiente, parliamo di 6-7
milioni di persone, e con i familiari forse si arriva alla metà del
nostro Paese”. Chi potrebbe beneficiare del reddito minimo garantito e
come trovare le risorse per finanziarlo?
In
realtà, secondo le indagini statistiche condotte dalla Caritas e dalla
Commissione Parlamentare contro la povertà e l’esclusione sociale,
coloro che si trovano nel 2011 ad avere un reddito individuale al di
sotto della soglia di povertà relativa ammontano a circa 8 milioni e
mezzo di persone.
Secondo i nostri calcoli, una misura di RBI di
720 euro/mese, necessita poco meno di 35 miliardi. Al netto dei sussidi
oggi esistenti di uguale entità (pensioni sociali e di invalidità,
sussidi di disoccupazione, indennità e casse integrazioni), le risorse
da aggiungere sono pari a 15,7 miliardi. Una cifra abbordabile che
dovrebbe essere a carico della collettività (e non finanziata dai
contributi sociali dell’Inps, come avviene oggi). I dati sono contenuti
nei Quaderni di San Precario e sul sito Bin.
Il sistema fiscale si
basa sulla tassazione dei fattori produttivi. Oggi si tassano solo il
lavoro dipendente (tanto), la proprietà delle macchine (poco) e il
consumo (molto). Ma ci sono ben altri fattori produttivi: la
finanziarizzazione, la conoscenza, lo spazio. Si potrebbero tassare le
transazioni finanziarie, anche solo per lo 0,01%; i diritti di proprietà
intellettuale; i grandi patrimoni immobiliari che lucrano sugli spazi
delle città. Ma anche l’uso delle forme contrattuali atipiche: ad
esempio, introducendo l’Iva sull’intermediazione di lavoro effettuato
dalle agenzie interinali. E poi ci sono le spese da sopprimere come gli
aerei da guerra F35 che la Difesa sta acquistando per 15 miliardi di
euro. Si parla molto di patrimoniale. Una sua introduzione porterebbe da
sola nelle casse dello Stato più di 10 miliardi. In altre parole, la
questione non è di fattibilità ma di volontà politica. E non abbiamo
nemmeno citato l'evasione fiscale... Comunque, per un approfondimento
del tema fiscale e per un’analisi delle possibili proposte in materia,
rimando al n. 3 dei Quaderni di San Precario che esce proprio in questi
giorni e al sito del Bin - Italia.
Nell’Unione
europea il reddito minimo garantito è una realtà consolidata, ma tre
Stati membri non l’hanno istituito: Italia, Grecia e Ungheria. A Tuo
avviso, perché le forze politiche e sociali italiane sono così poco
sensibili all’introduzione di questo istituto nel nostro ordinamento
giuridico?
La ragione principale è che siamo in
presenza di un deficit culturale. Una proposta di RBI viene ritenuta non
a caso politicamente inaccettabile dalla classe imprenditoriale ma
incontra difficoltà anche nel campo sindacale. I primi la considerano
una misura sovversiva nella misura in cui essa è in grado di ridurre la
ricattabilità dal bisogno e dalla dipendenza del lavoro, con la
possibilità di mettere in crisi la subalternità del lavoro al capitale.
Per i secondi, credo che purtroppo nella maggior parte dei casi vi sia
ancora troppa diffidenza verso la proposta del reddito di base. Essa
viene ritenuta politicamente inaccettabile in quanto proposta sovversiva
nella misura in cui contraddice quell’etica del lavoro su cui parte dei
sindacati stessi continua a basare la propria esistenza. La possibilità
di rifondare una politica sindacale autonoma e adeguata ai processi di
accumulazione di oggi sta nel comprendere che, nel contesto economico
attuale, produzione e riproduzione sono interconnesse, la distinzione
tra lavoro manuale e lavoro intellettuale tende a essere meno rilevante,
tempo di lavoro e tempo di vita tendono a mischiarsi: lo dimostra il
fatto che dopo un secolo di riduzione, l’orario di lavoro negli ultimi
trent’anni ha ricominciato a crescere. La lotta per il reddito e per un
nuovo welfare interviene direttamente dentro le condizioni di lavoro
come premessa per incidere sulla stessa organizzazione del lavoro, sul
tempo di lavoro, sul livello di ricattabilità e subordinazione che fanno
dipendere il lavoro dal capitale. Non c’è più separazione tra politiche
del lavoro e politiche di welfare. Esse sono due facce della stessa
medaglia. E oggi, più di ieri, la lotta per un nuovo welfare è strumento
diretto di regolazione del mercato del lavoro e di miglioramento della
condizione lavorativa.
Il Ministro del Lavoro e
delle Politiche Sociali Elsa Fornero ha dichiarato: “L’Italia è un paese
ricco di contraddizioni, che ha il sole per nove mesi l’anno, e con un
reddito di base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta
al pomodoro”. Andrea, non ritieni invece che il reddito minimo
garantito possa costituire un elemento propulsivo e un’opportunità per
l’economia e la società italiana?
Assolutamente
sì. E ciò vale proprio per le condizioni del lavoro oggi, dove sempre
più le facoltà cognitive e relazionali sono messe al lavoro (e a
valore). Ciò darebbe impulso a quella cooperazione e produttività
sociale che sta oggi alla base della creazione di valore, favorendo un
miglior sfruttamento dell'economia di apprendimento e di rete.
Per
un approfondimento al riguardo occorre inizialmente domandarsi il
significato del termine “lavoro”. L’idea di “lavoro” fa riferimento
alla libera espressione della capacità e della creatività umana (nel
qual caso sarebbe meglio usare il termine “opera”) o invece si fa
riferimento a quel lavoro che si è costretti ad accettare (appunto
“coercitivo”) perché non vi sono alternative se non il ricatto e la
miseria (dal latino labor = fatica). Quando si parla di catena di
montaggio, di lavoro in fabbrica o in un call center o in un ufficio a
imputare dati su dati, non si parla di “opera”, ma più prosaicamente di
“lavoro”: un lavoro che non dà nessuna dignità umana, ma solo
asservimento. La favola del lavoro che nobilita l'uomo viene dall'antica
Grecia, quando per lavoro (nel senso di opera) si intendeva otium, ovvero la possibilità di coltivare i propri interessi (il concetto di "gioco").
Oggi
è solo schiavitù, in quanto finalizzato a creare valore in modo
alienato per pochi. Non è un caso che l'attività umana in quasi tutte le
lingue e tradizioni dei popoli del mondo si esprime con due termini:
uno significa fatica, dolore, tortura (travail, lavoro, trabajo, labour,
arbeit, ecc.), l'altro significa scelta, vita activa, produzione
artistica (opus, opera, ouvre, work, werke, ecc.).
E' dal
capitalismo (ma direi anche prima, dalla nascita del protestantesimo)
che l'idea di attività umana come dolore, fatica, tortura, schiavismo,
asservimento è diventata l'unica vera attività lavorativa (la cd. "etica
del lavoro"), con la scusa che bisogna contribuire alla società
(leggasi, ai profitti e alle rendite di pochi). A più di trent’anni dai
movimenti degli anni Settanta che teorizzavano e predicavano il rifiuto
del lavoro salariato (e che tanto hanno influito sulla mia formazione
politica), è disperante osservare come l’attuale arretratezza culturale
(presente anche all’interno della sinistra e della pratica sindacale)
non sia in grado di fare questa distinzione fondamentale e si focalizzi
ancora sulla richiesta di riconoscere la dignità dello stesso lavoro
salariato.
Ridurre il grado di coercizione al lavoro, proprio
perché si riduce la ricattabilità al bisogno, aumenta il diritto alla
scelta e quindi la libertà e l’autonomia degli individui (diritto alla scelta del lavoro, non diritto al lavoro tout court!):
due elementi che vanno a braccetto con l’ampliamento dei diritti
sociali e delle stesse garanzie del lavoro. E farebbero bene anche al
sistema economico, come antidoto per uscire dalla crisi attuale.
In
Italia c’è chi sostiene sia più realistico, data l’attuale congiuntura
economica, estendere e potenziare il sistema di ammortizzatori sociali
esistenti piuttosto che introdurre il reddito minimo garantito. Cosa
pensi di questo orientamento e qual è la Tua valutazione in merito al
nuovo sistema di ammortizzatori sociali contemplati dalla riforma del
mercato del lavoro Monti-Fornero?
Il giudizio è
molto negativo. La riforma si muove in un’unica direzione: abolire
quegli ammortizzatori sociali che sono a carico del bilancio dello
Stato, con l’ovvio obiettivo di fare cassa. Indennità di disoccupazione e
di mobilità e la Cassa Integrazione Straordinaria (dal 2014) saranno
abolite a favore dell’introduzione dell’Assicurazione Sociale per
l’Impiego (Aspi), che entrerà a regime ben nel 2017 e che verrà
finanziata con i contributi sociali (in particolare con l’aumento
dell’aliquota contributiva dell’1,4% a carico dei contratti a termine).
Rimarranno in vigore, sino al 2017, la Cassa Integrazione Ordinaria (già
oggi a carico della contribuzione sociale) e la Cassa in deroga, finché
saranno esigibili i finanziamenti stanziati a livello europeo e oggi
utilizzati dalle regioni (e che il governo si limita ad auspicare che
diventino strutturali). La nuova assicurazione sociale potrà essere
usufruita dai lavoratori dipendenti (quindi non dai parasubordinati e
dagli “autonomi”), dagli apprendisti e dagli artisti, purché siano stati
garantiti due anni di anzianità assicurativa e 52 settimane di lavoro
nell’ultimo biennio (art. 23). Rimangono così inalterati quei parametri
di accesso già oggi in vigore per il sussidio di disoccupazione e che
tagliano fuori da qualsiasi forma di sostegno al reddito la maggior
parte dei precari. Sarà pari al 75% della retribuzione fino a 1.150 euro
e al 25% oltre questa soglia, per un tetto massimo, comunque, di 1119
euro lordi al mese. La durata dell’Aspi viene estesa dagli attuali 8
mesi (12 per gli over 50) a 12 mesi (18 per gli over 55), ma sarà a
scalare con una riduzione nella misura del 15% dopo i primi sei mesi di
fruizione e di un ulteriore 15% dopo il dodicesimo mese di fruizione
(art. 24). Per rendere più digeribile questa pillola amara, nel periodo
di transizione, è prevista una mini-Aspi, applicabile ai giovani
lavoratori, con parametri di accesso più favorevoli: sono infatti
necessarie almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi.
L'indennità verrà calcolata in maniera analoga a quella prevista per
l'Aspi. La durata massima dell'istituto sarà però pari alla metà delle
settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi, ultimi 12 mesi,
detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo (art.
28). Rimangono però esclusi le varie forme di collaborazioni e altre
tipologie precarie di lavoro.
Personalmente penso che occorra una
drastica rimessa in discussione degli attuali ammortizzatori sociali,
che vada verso la creazione di un unico ammortizzatore sociale, appunto
il RBI. Troppe sono le distorsioni, le iniquità e l’impraticabilità di
accesso di quelli attuali. Alcune precondizioni potrebbero essere utili:
•
La separazione tra assistenza e previdenza, ovvero tra fiscalità
generale a carico della collettività e contributi sociali, a carico dei
lavoratori e delle imprese (Inps). In altre parole, la somma che
finanzia il reddito di base non deve derivare dai contributi sociali, ma
piuttosto dal pagamento delle tasse dirette e indirette e dalle entrate
fiscali generali dello Stato, relative ai diversi cespiti di reddito,
qualunque sia la loro provenienza. Il reddito di base incorpora,
sostituisce e universalizza gli attuali iniqui, parziali e distorsivi
ammortizzatori sociali, non più da contabilizzare nel bilancio Inps ma
all’interno del bilancio dello Stato (Legge Finanziaria nazionale e
regionale). In tal modo, si riducono i contributi sociali (per la quota
relativa agli ammortizzatori sociali), con l’effetto di far aumentare i
salari e ridurre il costo del lavoro per le imprese.
• La
costituzione di un bilancio autonomo di welfare. Occorre costituire e
definire un bilancio suo proprio, dove vengono contabilizzate tutte le
voci di entrata e di uscita, ovvero le fonti di finanziamento e le voci
di spesa. La legge quadro 328/2000 di "riforma del welfare locale",
unitamente ad altre disposizioni legislative precedenti (in particolare
il D.L. 31 marzo 1998, n. 112), consente tale innovazione, anche grazie
alla possibile costituzione di un Osservatorio Regionale sul Welfare,
che abbia come compito il monitoraggio della spesa sociale e la sua
efficacia, l'analisi della composizione della ricchezza, della struttura
del mercato del lavoro, della distribuzione del reddito e
l’individuazione delle fasce sociali a rischio di povertà ed esclusione
sociale. Tale bilancio è un sotto insieme del bilancio generale
(regionale, nazionale o europeo). Tale operazione consente un processo
di razionalizzazione, semplificazione e trasparenza, in grado di:
1.
ridurre gli ambiti discrezionali di gestione del bilancio in materia di
welfare, oggi suddivisi tra assessorati diversi (o centri di spesa) con
bilanci separati, ognuno dei quali rappresenta un centro di potere;
2.
ridurre le sovrapposizioni e le moltiplicazioni di spese e
provvedimenti di protezione sociale, con un risparmio di bilancio, che
si stima essere intorno al 5-7%;
3. snellire l’iter burocratico e
centralizzare il processo di controllo e di monitoraggio, riducendo
ulteriormente i costi della macchina statale.
• Ridefinizione, a
fini fiscali, del concetto di attività lavorativa. Una definizione
omogenea, seppur flessibile, di prestazione lavorativa, basata sul grado
di dipendenza e di etero direzione, è necessaria per un equo
trattamento nell’imposizione fiscale e nella contribuzione
previdenziale.
21 aprile 2012
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