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25.3.11

CHI NON SI ARRUOLA E' UN DISERTORE

Di Bruno Steri (il manifesto del 25/03/2011)
Avevamo già avuto modo nel recente passato di conoscere il piglio bellicoso di Fiamma Nirenstein: non ci siamo quindi stupiti più di tanto nell'apprendere da Il Giornale che, a suo dire, il pericolo più grande è la paura della guerra («"Non avere paura e non sgomentarti" dice Dio a Giosuè»). Assai più inquietante, invece, è stato leggere su La Repubblica on line un commento di Andrea Tarquini in cui si rimprovera per ingratitudine la Germania, ricordandole che «senza il piano Marshall americano decisivo per la ricostruzione della Germania Ovest, senza decenni di protezione militare angloamericana per Bonn» non sarebbero state possibili né la caduta del muro né la riunificazione tedesca. Il tono è raccapricciante, sembra di esser tornati indietro di cento anni: se non ti arruoli, sei un ingrato oltre che un disertore. Così tutto il movimento pacifista, ma anche Chavez e Castro, Cina e Russia, nonché la traditrice Germania, insomma tutti quelli che hanno dubbi o si oppongono all'intervento armato al seguito della "coalizione dei volonterosi", sono trattati come feccia imbelle e senza onore.
Ed è La Repubblica a ospitare simili reprimende, cioè un nucleo forte dell'area Pd.
Sarebbe riduttivo, a mio parere, ascrivere il paradosso di un simile "interventismo progressista" semplicemente al fatto che Obama ha preso il posto di Bush alla Casa Bianca. Penso che dietro una tale preoccupante precipitazione ideologica vi sia un motivo ben più profondo: il mondo della globalizzazione si è sfasciato - crisi strutturale del capitalismo e crisi dell'assetto delle fonti energetiche (con l'odierna prospettiva di uno stop al nucleare) - gli spazi di manovra si sono quindi maledettamente ristretti e ciò ha determinato un'ulteriore torsione del senso comune.
In questo contesto è particolarmente significativo il modo in cui, nell'area di centro-sinistra, si considerino ormai morti e sepolti i principi di non ingerenza e di autodeterminazione dei popoli (principi fissati dall'Onu come fondamentali ed ora spazzati via dall'"ingerenza umanitaria", come se nulla fosse). Il tema è centrale (e controverso) e merita un approfondimento. I suddetti principi - stabiliti all'esordio della Carta delle Nazioni Unite all'art.1 (par.2) e all'art.2 (par.7) ed emblematicamente ribaditi dalla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, tenutasi a Helsinki nel 1975 - hanno per decenni regolato le relazioni internazionali, tutelando l'autonomo «sviluppo economico, sociale e culturale» dei popoli e garantendo che «per raggiungere i loro fini, tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali».
Ciò ha favorito il processo di decolonizzazione, consentendo ai Paesi in via di sviluppo di darsi una costituzione e una forma di governo, senza subire le pressioni degli Stati più ricchi e potenti.
Beninteso, con l'evolvere del mondo a "villaggio globale" si sono manifestate con forza nuove esigenze, che hanno posto in dialettica tensione la sovranità dei singoli stati con la realtà di un pianeta che la tecnologia ha reso sempre più unificato: basti pensare alla dimensione sovranazionale delle reti di comunicazione o di questioni strategiche come quella nucleare. Così, con il pieno dispiegarsi della globalizzazione capitalistica, la dimensione genericamente "umana" (indipendente dalla sua contestualizzazione statuale) e i temi della "sicurezza globale" hanno acquisito un nuovo e inedito peso.
In tale passaggio, il diritto internazionale ha dato nuova e perspicua forma giuridica alla "difesa dei diritti umani", trovando nel capitolo VII della Carta dell'Onu un fondamento al «diritto di ingerenza umanitaria» da parte della cosiddetta "comunità internazionale", nel caso di «crimini contro l'umanità» (genocidio, tortura, pulizia etnica, esecuzioni di massa) e di «minacce per la pace». Due risoluzioni dell'Assemblea Generale dell'Onu autorizzavano già «l'assistenza sanitaria alle vittime di catastrofi naturali e situazioni di emergenza dello stesso tipo» (1988) e la predisposizione di «corridoi umanitari di emergenza» in caso di conflitti interni (1990), senza tuttavia che ciò si configurasse come imposizione nei confronti di uno stato sovrano ma essendo inteso alla stregua di invito a facilitare i soccorsi. Con l'imporsi del «dovere di ingerenza» si è altresì potenziata la possibilità di contemplare, a certe condizioni, l'uso della forza. Non ci sembra, questa, affatto una buona notizia. In ogni caso, restano quelle "condizioni" da rispettare: ad esempio, quella di aver esperito tutte le strade della diplomazia e dell'iniziativa non militare. Criterio puntualmente violato, come la vicenda libica conferma.
Disgraziatamente, non viviamo nel "migliore dei mondi possibili" (come sembrerebbe vagheggiare l'integralismo illuminista e un po' ipocrita degli "interventisti progressisti"), ma in un mondo retto a ferrea misura degli interessi del più forte. Fu Henry Kissinger a sostenere, in tempi non sospetti, che il mondo stava transitando dal sistema della "non ingerenza" alla nuova fase dell'"ingerenza umanitaria". E, successivamente, Bush junior si incaricò di promuovere la sicurezza globale esportando - assieme ai diritti umani - la democrazia (centinaia di migliaia di vittime in Iraq e, ad oggi, 60 mila vittime civili in Afghanistan). Il punto ineludibile è dunque: chi è il soggetto di tale "ingerenza"? Non può esser certo una forza d'urto unilaterale. Ma nemmeno l'attuale Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che non ha ad oggi una struttura e un potere decisionale democratici.
Stando così le cose, è sorprendente che sia un intellettuale non di sinistra, quale Massimo Fini, a sbottare, dicendo comprensibilmente: «Quando sento parlare di "diritti umani", io metto idealmente mano alla pistola: perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno». Così come ha ragione da vendere Giorgio Bocca quando, a chi osserva che occorre soccorrere manu militari gli insorti libici colpiti dalla rappresaglia di Gheddafi, così replica: «Ma quando Israele attacca i palestinesi, non si muove nessuno, né mi pare che l'Onu si convochi in tutta fretta». Perché un tale strabismo? Perché sotto il cielo dei valori c'è la terra degli interessi materiali delle grandi potenze.




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