Campo Calabro, provincia di Reggio Calabria, 9 agosto 1991: due colpi di fucile calibro 12 a canne mozze, caricato a pallettoni, non hanno lasciato scampo ad Antonino Scopelliti, giudice della Corte Costituzionale. Accusa in processi importanti, come il delitto Aldo Moro e la strage di Piazza Fontana, ma soprattutto il giudice che deve emettere la sentenza definitiva sul maxiprocesso di Palermo, istruito nel 1986 dal pool di Falcone e Borsellino.
Scopelliti è stato prima ammazzato, poi umiliato, infine dimenticato. Le indagini sulla sua morte sono state condotte malamente; qualcuno ha sostenuto addirittura l'ipotesi della vendetta passionale.
Calabria e Italia sembrano non accorgersi nemmeno di aver perso uno dei loro giudici migliori: non una manifestazione, non una protesta. Nulla.
Il tempo passa, e i processi non riescono nemmeno a garantire giustizia a Marianna, figlia di Scopelliti.
Arriva l'autunno del 2005. Da poco è stato eliminato un altro calabrese eccellente: il vicepresidente regionale Francesco Fortugno, freddato a Locri, roccaforte della ‘Ndrangheta, con cinque colpi di pistola mentre votava per le primarie dell'Unione. Il 19 ottobre, al suo funerale, sei ragazzi camminano a testa alta portando uno striscione con la scritta “E adesso ammazzateci tutti” rivolta ai boss calabresi. Meno di un mese dopo, alla manifestazione organizzata il 4 novembre, partecipano ben 15 mila persone. Come a dire: «non siamo più quelli di 15 anni fa».
Aldo Pecora, fondatore del movimento, allora aveva solo 19 anni. Oggi ne ha 24 e rappresenta, meglio di chiunque altro, la parte sana della società calabrese. Ha appena scritto un libro su Antonino Scopelliti, intitolato Primo Sangue, per ricordare che il delitto Scopelliti è stato il primo atto della strategia stragista di Totò Riina volta a piegare lo Stato. A lui il compito di raccontare la storia del movimento e di fare il punto.
Qual è lo stato di salute del movimento Ammazzateci Tutti? Ci sono stati tentativi della politica di usarvi strumentalmente?
Tentativi ci sono stati, ma mica siamo fessi... Abbiamo cercato noi di sfruttare la politica trasversalmente. Abbiamo portato in Parlamento il disegno di legge Lazzati ora approvato, che prevede la decadenza immediata dell'eletto del quale si è accertato il voto di scambio.
Serve una sentenza definitiva della Cassazione?
Basta una prova certa, come un'intercettazione ambientale. Adesso il nostro ordinamento è novellato di questa norma che da ben 15 anni era ferma nei cassetti del Parlamento! Questa è stata la prima cosa che ha fatto Ammazzateci Tutti, sfruttando la politica. Poi purtroppo c'è stato qualcuno che ha tentato di metterci il cappello sopra, ma noi abbiamo le spalle larghe. Oggi il movimento è esteso su tutto il territorio nazionale, io mi avvio alla mia “exit strategy”: ho un altro mandato, e poi vedremo.
Avete delle richieste concrete da fare alla politica?
Di richieste ce ne sono tantissime. A partire dalla tutela dei testimoni di giustizia: siamo stati tra i primi a denunciarne le anomalie. I testimoni hanno una normativa eccezionale dalla loro parte, ma le stesse normative sono rese di fatto inapplicabili da un eccessivo scrupolo nell‘applicazione. Si prevede la norma ma con una serie di cavilli legislativi la si rende poi inapplicabile. E i testimoni di giustizia sono molto più importanti dei pentiti: sono cittadini comuni che denunciano racket, estorsioni, pizzo. Sono vessilli di legalità. Devono essere protetti, ma è impensabile che debbano cambiare il nome, il luogo, che siano sradicati dai loro territori: il testimone di giustizia deve restare a casa sua, in modo che la gente dica “Allora conviene denunciare!”.
Conviene, oggi, mettersi dalla parte dello Stato, oppure conviene stare dall'altra parte?
Conviene stare dalla parte giusta. Perché se stare dalla parte dello Stato vuol dire stare dalla parte di una persona come Corrado Carnevale, che ha rappresentato lo Stato in Cassazione, dove Scopelliti chiedeva la conferma degli ergastoli e Carnevale, nel collegio giudicante, li annullava puntualmente, beh se quello è lo Stato, io sono con un altro tipo di Stato. Sono con lo Stato di Scopelliti. Quindi bisogna stare dalla parte giusta e soprattutto sentirsi a posto con la propria coscienza. C'è una frase bellissima di Paolo Borsellino, quando definiva il suo migliore risultato «tornare a casa la sera, guardarmi allo specchio e pensare di essermi meritato lo stipendio». Questo è il mio Stato.
Tu sostieni che la sovranità nel Meridione non appartiene al popolo, ma alle mafie. E il Nord? Corre gli stessi rischi oppure ha degli anticorpi?
Al Nord, nonostante le mafie siano presenti, i cittadini non sono succubi. Il Nord è molto più grande. Pensa alla Calabria: è una regione di 2 milioni di abitanti, dove il mafioso lo vedi al bar, alla porta di casa. A Milano non può succedere, la città è enorme; probabilmente la mafia è più mimetizzata... e questo se è un problema da una parte, dall’altra è un vantaggio, perché la gente non ha paura. E quindi anche le istituzioni possono cominciare ad affrontare il problema. Certo, bisogna mantenere l'allerta perché, come dimostrano le ultime indagini dell' operazione Crimine, gli interessi della 'ndrangheta si muovono anche dentro apparati come la sanità.
Nell'intervista contenuta nel tuo libro, Nicola Gratteri, Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, dice che la 'ndrangheta non si estinguerà mai, perché è come se ci fosse una “parte di 'ndrangheta in ognuno di noi”. Non ti sembra che sia una frase pericolosa per i giovani?
Infatti nell'intervista io lo contesto, perché smentisce Falcone, che diceva che la mafia è un fenomeno umano, destinato a estinguersi. Lui si giustifica dicendo “quando vado in una scuola, su 100 ragazzi ho l'obiettivo, di recuperarne 20”. Gratteri spesso provoca, e le provocazioni fanno rumore. Ma sono certo che lui è il primo a sperare, altrimenti non andrebbe in giro per le scuole a parlare di legalità.
Perché secondo te si parla per mesi di casi come Cogne o Avetrana, e invece pochissimo per esempio di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica assassinato il 5 settembre, o di Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia sciolta nell'acido, a Monza, in ottobre? Da che cosa dipende questa scelta?
Questa purtroppo è la “sindrome da reality”: al telespettatore piace guardare dal buco della serratura. Avetrana è stata un'indagine praticamente condotta in diretta televisiva. Cosa che ha fatto male alle indagini. In altri casi può fare bene. Non oso immaginare che cosa sarebbe accaduto se venti anni fa il delitto Scopelliti avesse avuto la stessa attenzione. E invece la salma del magistrato venne subito portata all'obitorio, sottoposta ad autopsia, e precipitosamente chiusa tra quattro assi di legno per essere tumulata il giorno successivo; e il luogo del delitto è stato ripristinato al traffico in poche ore: cose inaudite!
È vero, l’informazione ufficiale non parla più di Vassallo, ma io confido nella rete dove girano informazioni interessanti, per esempio sul giro di appalti, forse 70 milioni di euro, che dovevano arrivare nel parco del Cilento. I telegiornali tacciono perché manca la pressione dell'opinione pubblica. Dopo il delitto Fortugno è stato diverso: abbiamo tenuto i riflettori accesi per un mese, e ne hanno parlato televisioni e giornali perchè tutti gli inviati dei più grandi quotidiani erano a Locri.
E infatti avete fatto diventare il delitto Fortugno e la 'Ndrangheta questioni nazionali.
Sì, ma poi i riflettori piano piano si sono spenti. Ogni tanto si riaccendono perché l'informazione ha assimilato un po' delle notizie accumulate. Certo, c'è un po' di confusione, molti non sanno nemmeno come si scrive 'Ndrangheta: se si scrive “Andrangheta”, se si scriva “Drangheta”. Quindi tutti vogliono parlarne perché in questo momento è di moda. Ma è un grosso rischio, perché bisogna innanzitutto studiare. Per scrivere questo libro ho studiato anni. Negli anni ‘80 e ‘90, quando ero appena nato, sono successi fatti incredibili che ho studiato sui documenti. Bisogna approfondire il retroterra culturale di questi avvenimenti, conoscere la storia criminale della Calabria: non la storia di Osso, Mastrosso e Carcagnosso! Bisogna conoscere il passaggio tra i vecchi e i nuovi boss, quando si uccidevano nella stessa famiglia per il predominio e la linea politica: la vecchia 'Ndrangheta contro le droghe e i giovani a favore.
C'è stato quindi uno scontro generazionale?
Sì, uno scontro generazionale poco raccontato. Negli anni ‘70 Gigi Malafarina e Sharo Gambino, per lo più sconosciuti, hanno aperto uno squarcio nella letteratura calabrese. Di loro non si sa nulla, così come di
Saverio Strati e Saverio Montalto. Si sa qualcosa di Corrado Alvaro, perchè scriveva sul Corriere della Sera. Il lavoro degli intellettuali del Sud è rimasto circoscritto al contesto calabrese e oggi vengono scopiazzati da tutti perché c'è sete di conoscenza. Il mio libro non parla di attualità, parla di un fatto di vent'anni fa, che si attualizza con nuovi risvolti.
Ma il processo Scopelliti secondo te deve essere riaperto?
Sicuramente: basta che si prendano gli atti prodotti alla Direzione distrettuale antimafia, le deposizioni dei pentiti, si accertino le responsabilità del versante calabrese. Un tempo, personaggi del calibro di Giovanni Tegano, Pasquale Condello e Giuseppe De Stefano dietro le sbarre erano impensabili. Oggi sono tutti in carcere, quindi si può portare a processo il versante calabrese, che finora non ha pagato per questo delitto.
E poi ci sarebbero pure i mandanti siciliani...
Esatto, perché il delitto Scopelliti fu un favore fatto dalla 'Ndrangheta a Cosa Nostra. È un delitto “compartimentato”: il mandante non sa il nome dell'esecutore e l'esecutore non sa il nome dell'organizzatore materiale, che non è stato mai processato. In virtù della nuova giurisprudenza e delle nuove risultanze investigative si potrebbero processare entrambi. Poi bisogna verificare se ci sono delle responsabilità a livello investigativo. Gratteri stesso mi dice che la polizia giudiziaria del tempo lamentava di non riuscire a lavorare sul luogo del delitto: sono affermazioni gravi.
Nel libro infatti si parla di veleni giudiziari nella Procura di Reggio Calabria, che ricordano molto la Palermo di Falcone; e poi di indagini fatte malissimo. Quindi il nemico non è solo esterno allo Stato, è anche all’interno. Qual è il più pericoloso?
Quello all'esterno è un nemico quasi leale: lo conosci come nemico, e sai che ha calpestato tutti i codici d'onore. Ma il marcio dentro allo Stato, ti demoralizza e ti mette in costante all'erta perché dici: “non mi posso fidare più di nessuno”. Certo, sono pochi, ma in grado, per esempio, di spiare Gratteri all'interno della sua stessa Procura: due anni fa nel suo ufficio sono state rinvenute delle cimici, che non possono aver messo i mafiosi.
Ultime due domande. Nel 1991 tu avevi 5 anni: perché quel 9 agosto ha cambiato la tua vita? E perché scrivere un libro su Scopelliti, cosa può dare oggi il suo esempio?
Mio padre, quando si parlava di Falcone e Borsellino, diceva: «Perché non parlano mai di Scopelliti?». Ero piccolo, ma questo ricordo me lo sono portato dentro. A scuola, quando all'interno del movimento studentesco si parlava di 'Ndrangheta, io dicevo: «Noi abbiamo il nostro Falcone: Antonino Scopelliti». La gente mi guardava con degli occhi stupiti come a dire «Ma che stai dicendo, chi è?”.
Ero ammaliato da questo personaggio, sognavo di diventare un giorno magistrato. E soffrivo perché non si rendeva il giusto tributo a un servitore dello Stato che aveva dato tutto alla Calabria, persino la vita. Era stato minacciato da tutti: dai brigatisti, dal terrorismo nero, dalla Camorra.
Lui aveva rinunciato a vivere, e lo aveva fatto soltanto per la giustizia.
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