La storia - In una sorta di protezionismo atavico, qui è proibito cedere un solo acro a una famiglia che sia estranea al villaggio. Il villaggio in India che blocca l'acciaieria «È dove vivono gli spiriti degli avi». Il magnate Tata sta tentando inutilmente di «comprare» il consenso degli indigeni.
JAGDALPUR - Al tribunale di Jagdalpur, India centrale, una folla di questuanti passa la giornata aspettando il rinvio ciascuno della sua prossima udienza. Tra una settimana saranno di nuovo tutti qui e la settimana dopo anche. Avere una pendenza giudiziaria, in India, è una professione che una fiumana di avventori svolge con flemma e disciplina, per lo più ingannando l'attesa in cortile intorno al chiosco dei dolci fritti. Oggi nella calca c'è anche un piccolo gruppo di tribali di Sirisguda, un villaggio di 400 famiglie, guidati da un avvocato che sghignazza a ogni frase. Il legale è un borghese di città, induista; loro sono «adivasi» di campagna, aborigeni della tribù Madiya adoratori dei propri dèi locali, Prodesi, Parvadeo e Englajin, che a loro avviso risiedono ai confini delle risaie di Sirisguda. Vestiti da città gli adivasi si muovono un po' a disagio, ma ottengono il solito rinvio sul loro mandato di carcerazione (torneranno il mese prossimo) e poi si lasciano riportare a casa stipati nella piccola Hyundai ammaccata dell'avvocato. All'uscita da Jagdalpur, sulla via verso i campi, passano davanti a un cartellone verde che presenta una certa iniziativa benefica di Ratan Tata agli abitanti della zona; il miliardario che guida la più antica famiglia industriale indiana vi appare in foto enorme, rassicurante. È parte del motivo per cui gli adivasi di Sirisguda dovrebbero andare in carcere. Tata Steel, il gruppo che Fortune colloca al posto numero 410 fra i più grandi al mondo con ricavi da 21 miliardi di dollari nel 2009, progetta un'acciaieria da 4,1 miliardi e quasi 10 mila posti complessivi nel luogo dove ora vivono gli dèi e i risicoltori di Sirisguda. Ma in base alla costituzione indiana, Tata non può sfrattarli e prendersi la terra. Deve convincere gli aborigeni, la prima generazione ad aver mai mandato i propri figli a scuola, a vendere.
Dal 2006 Tata Steel ci sta provando. Da allora, l'amministrazione locale di Jagdalpur ha incriminato per reati contro l'ordine pubblico 13 capifamiglia adivasi che nelle assemblee si oppongono ferocemente all'accordo. È un passaggio delicato, in questa democrazia tuttora in coda a tutte le classifiche globali sulla corruzione: il gruppo di Mumbai ha messo a disposizione dei politici locali i fondi per l'offerta ai tribali, delegando loro l'operazione. Questa prevede l'acquisto della terra a 150 mila rupie (circa 2450 euro) per acro, quando il prezzo di mercato si aggira sulle 80 mila. Chi vende avrà diritto anche a tre anni di studi tecnici o di ingegneria per i figli, un po' di terra altrove e a un appartamento nuovo in una vera casa di cemento, non più nelle catapecchie di selci accatastate dove gli adivasi vivono da sempre. A un giovane di ciascuna famiglia che dovesse accettare l'offerta, Tata garantisce poi un posto nell'acciaieria che sorgerà: remunerato tra le 30 e le 50 mila rupie al mese (fra 500 e 800 euro circa), l'equivalente del ricavo lordo annuo di un acro a riso grezzo; oggi, a Sirisguda, per crescere un figlio servono 7 mila rupie (115 euro) l'anno. A queste condizioni, secondo l'azienda il 70-75% dei proprietari terrieri e 8 dei 10 villaggi interessati hanno già aderito: più di 8 mila abitanti su 12 mila. A Sirisguda, invece, nessuno. A chiunque si chieda il perché, la spiegazione è la stessa: «Non possiamo vendere, a nessun prezzo. Lo spirito dei nostri avi si trova in questa terra».
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